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La dittatura degli slogan

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festeggiamenti nello stadio di tirana

Questo pezzo è uscito sul Corriere del Mezzogiorno.

È pressoché impossibile spiegare a chi non c’era com’era la vita sotto il totalitarismo. È pressoché impossibile spiegare non la storia, ma l’esistenza reale, la cappa di paura e conformismo, l’annullamento dell’individualità, i sogni segreti, le relazioni umane, la lingua. A volte lo fa la letteratura. Altre volte lo fanno affondi storici sui generis. “Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista” di Gëzim Hajdari, appena edito da Besa, è allo stesso tempo l’una e l’altra cosa. Hajdari, poeta albanese tra i migliori, vive in Italia del 1992. Alcuni suoi libri (“I canti dei nizam”, “Corpo presente”, “Stigmate”…) sono stati pubblicati sempre da Besa. Non è ancora uscito in italiano “Epicedio albanese”, in cui viene raccontata l’eliminazione di una folta schiera di poeti e scrittori sotto il regime di Enver Hoxha, il più claustrofobico e surreale delle dittature dell’Europa orientale, insediatosi sull’altra sponda del mare Adriatico.

“Evviva il canto del gallo nel villaggio comunista” è una raccolta di tutti gli slogan politici formulati nei lunghi anni del regime. Offre uno spaccato geniale non solo di cosa pensava, scriveva, gridava la propaganda ufficiale, ma anche del modo in cui questo universo di parole ha avvolto e irregimentato un intero paese per decenni. Gli slogan venivano scritti sui muri, sugli edifici pubblici, negli stadi, sui manifesti. A volte venivano composti con pietre bianche, parola dopo parola, sulle montagne. Ad esempio, anche dopo la caduta del regime, nei primi anni novanta, giungendo in traghetto da Brindisi o Otranto nel porto di Valona, era possibile leggere sulla parete di una ripida collina la scritta “ENVER” a caratteri cubitali, opera del lavoro di centinaia di soldati, studenti, militanti. È stata rimossa solo in seguito. Dalle parti di Berat, invece, qualche anno fa un giovane artista, Armando Lulaj, mutò con l’aiuto della gente del posto la scritta “ENVER” (sopravvissuta persino al tentativo di distruggerla con il napalm) in “NEVER”.

Il film di Gjergj Xhuvani “Slogans” (tratto da un bel racconto di Ylljet Alicka), il primo film albanese selezionato nella Quinzaine des réalisateurs a Cannes, ricostruisce la vita di un piccolo villaggio di montagna intorno all’obbligo di costruire slogan di pietra. Lo fanno i bambini delle elementari, guidati dai loro insegnanti. Ai maestri invisi dal preside (e dal commissario politico) erano affibbiati gli slogan più lunghi. Chi non li eseguiva per tempo, o non li faceva realizzare in maniera perfetta, finiva nei campi di rieducazione. Oggi sempre assurdo ricordarlo, ma l’Albania era anche questo. E gli slogan raccolti con pazienza certosina da Hajdari ce lo ricordano. Lo ricordano innanzitutto a chi è nato dopo, e magari attraversa la Tirana luccicante di questi anni, senza avere la minima idea del passato che si cela dietro ogni palazzo.

C’erano slogan che esaltavano il dittatore: “Per Enver Hoxha canterò tutta la vita”, “È nato un Sole in Albania: il nostro comandante Enver Hoxha”, “Il cervello del compagno Enver è anche il nostro!”, “Quando parla il compagno Enver il mondo trema!”…

Slogan minacciosi: “Sempre in allerta contro il nemico di classe!”, “Dobbiamo seppellire da vivi i nemici del popolo!”, “Morte ai traditori del popolo!”.

Slogan ansiogeni: “Il Partito ha quattro occhi e quattro orecchie!”, “Non dobbiamo trascurare la vigilanza rivoluzionaria!”.

Slogan innegabilmente maoisti: “Viviamo insieme, in mezzo al popolo e per il popolo”, “L’imperialismo americano è una tigre di carta”.

Slogan rivolti all’altra sponda: “Abbasso l’eurocomunismo di Berlinguer”, “Abbasso Madre Teresa di Calcutta, agente segreto del Vaticano”.

Slogan sulla moda: “Guerra ai capelloni!”, “Guerra alle basette!”, “Abbasso i pantaloni in jeans!”, “Abbasso la minigonna!”.

Slogan agropastorali, a parte quello del titolo: “Evviva le pecore comuniste!”, “Evviva le mucche comuniste!”, “Evviva le galline comuniste!”, “Evviva il grano comunista!”, “Evviva il mais comunista!”.

Alcuni di essi oggi possono far sorridere. Altri appaiono tanto surreali da risultare comunicativamente felici. Ma per evitare che l’analisi del passato si riduca al solo recupero “pop”, vanno ricordati alcuni dettagli, come dice Hajdari. In una società totalitaria in cui tutto era ammantato dall’ideologia plasmata dalla corte stretta intorno a Enver Hoxha, c’era l’obbligo di scrivere o ripetere ad alta voce tali slogan. Lo facevano ossessivamente gli studenti, lo facevano ossessivamente i detenuti, politici e comuni, ai lavori forzati. Una delle grande tragedie del Novecento, per usare le parole Fejtö, è che coloro i quali volevano edificare la dittatura del proletariato l’hanno presto trasformata in dittatura sul proletariato. In Albania, il culto della personalità è durato più lungo che in ogni altro paese europeo.

Oggi queste considerazioni intorno al libro di Hajdari possono apparire “archeologiche”. La gran parte degli albanesi (non solo degli italiani) in tutt’altre faccende affaccendati penserà a tali slogan come pura archeologia. Eppure andrebbe ricordato non solo che la conoscenza del passato è la via migliore per accedere al presente, ma anche che alcuni segmenti linguistici di quel passato, con cui non sempre si sono fatti i conti a dovere, non sono del tutto evaporati. È interessante vedere, ad esempio, come i più lucidi intellettuali albanesi siano oggi attentissimi a smascherare i tratti della prolissa oratoria di Enver Hoxha nei discorsi dei politici di rango dell’epoca democratica.


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